Lunedì 30 agosto 1965 una valanga di più di 2 milioni di metri cubi di ghiaccio seppellì 88 dei lavoratori impegnati nella costruzione della diga in terra più grande d’Europa. Di questi, 56 erano italiani.
A Mattmark non ci si fermava mai, si lavorava giorno e notte per costruire un’imponente diga capace di produrre l’energia necessaria a un paese, la Svizzera, che stava vivendo una crescita economica senza precedenti. Nel cantiere lavoravano più di mille persone, in maggioranza straniere e provenienti soprattutto dal’Italia.
Lo sfruttamento dell’energia idroelettrica, che ancora oggi rappresenta la fonte principale di approvvigionamento della Confederazione, fu fino agli anni sessanta quasi l’unica risorsa energetica – prima di essere affiancata dal nucleare – grazie alla quale crebbe l’industria e venne accelerata la modernizzazione del paese.
Le misure di sicurezza predisposte a tutela degli operai risultarono pressoché nulle: gli alloggi dei lavoratori erano stati collocati proprio a piedi del ghiacciaio dell’Allalin, assai temuto a causa della sua instabilità. Soltanto dopo il disastro venne impiantato un sistema di allarme per le valanghe e si predisposero le esercitazioni per la fuga in caso di pericolo.
Il ghiacciaio Allalin, a duemila metri, si muoveva da tempo, mentre si lavorava alla diga più grande d’Europa: cadute di pezzi di ghiaccio e slavine erano all’ordine del giorno, come gli incidenti, ma quasi nessuno, tra i tecnici e gli ingegneri della Elektro-Watt, la società committente, se ne preoccupava. Priorità alla sicurezza della diga rispetto alla sicurezza degli operai. Nessuno pensò che sistemare le mense, le cantine, gli uffici, le baracche esattamente in linea diretta rispetto alle pendici del ghiacciaio fosse pericoloso, pur avendo il vantaggio di rendere più rapidi ed efficienti gli spostamenti verso il cantiere.
La valanga in pochi secondi travolse tutto, accadde l’irreparabile: «Niente rumore. Solo, un vento terribile e i miei compagni volavano come farfalle. Poi ci fu un gran boato, e la fine. Autocarri e bulldozer scaraventati lontano»
Nei giorni successivi si scavò senza sosta con la speranza di trovare ancora vivi amici, padri, fratelli, figli. Ci vollero più di sei mesi per recuperare i resti dell’ultima salma.
Mattmark, la diretta televisiva e la presenza ininterrotta dei giornalisti, per settimane, mobilitano l’opinione pubblica sulle condizioni di vita dei lavoratori immigrati in Svizzera e sui rischi di un eccessivo sfruttamento delle risorse naturali.
Una catastrofe annunciata. Operai (specie gli italiani) sottoposti a orari di lavoro fuori controllo, fino a 16 ore al giorno spesso anche la domenica, con temperature che raggiungevano i 35 gradi sotto lo zero (per gente non abituata alla neve e al gelo), vivendo in pessime condizioni igieniche dentro baracche sovraffollate, a volte senza riscaldamento e senza bagni, con le condutture dell’acqua congelate, con tetti che il vento spazzava via. E i rischi per la salute: la polvere incessante dei camion, i gas dentro le gallerie, le ferite e le infezioni.
Questa storia si concluse nel modo peggiore: i tempi dell’inchiesta furono lunghissimi, oltre sei anni, e i diciassette imputati chiamati a rispondere dell’accusa di omicidio colposo furono tutti assolti, nonostante l’instabilità del ghiacciaio fosse nota da secoli. In appello andò anche peggio, con la conferma dell’assoluzione e la condanna dei familiari delle vittime al pagamento delle spese processuali.
"Neve e Ghiaccio" è un documentario diretto da Marco Tagliabue e prodotto dalla televisione svizzera RSI.
https://vimeo.com/150329086